Chi era Vivian Maier? La tata fotografa

VM Vivian Maier 1953Oggi voglio raccontarti una storia. Una storia che forse chi lavora in campo fotografico conoscerà già, ma che cercherò di trattare dal mio punto di vista, quindi psicologico e fotografico insieme. Una storia che ho conosciuto vedendo un documentario al cinema e che mi ha a tal punto entusiasmata da volerla condividere qui.

É la storia di…

una donna nata a New York nel 1926, sola e solitaria, con la rolleiflex sempre al collo. “Una fotografa!” Dirai.

No, una bambinaia.

E già, perchè Vivian Maier, oggi conosciuta e riconosciuta come una delle più grandi fotografe del ‘900, è diventata famosa solo dopo la sua morte (avvenuta nel 2009) e solo perchè il suo archivio fotografico, conservato in un box di cui lei non riusciva più a pagare l’affitto, è stato comprato all’asta (nel 2007) da un giovane dell’Illinois, John Maloof.

Il fortunato Maloof (lo invidio profondamente, inutile negarlo!) tra bizzarri cappelli, scontrini, vestiti e cianfrusaglie conservate maniacalmente, ha trovato centinaia di negativi e migliaia di rullini mai sviluppati e ha pensato bene di svilupparne qualcuno, ritrovandosi tra le mani un vero e proprio TESORO composto da oltre 100 mila scatti (sì, hai letto bene. CENTOMILA) e principalmente da fotografie di strada in cui i soggetti ritratti erano passanti, lavoratori, coppie, mendicanti, ricche signore, anziani e bambini.

E i bimbi fotografati spesso erano proprio gli stessi bambini a cui lei faceva da tata. Non si sa bene perchè, ma la Maier, nonostante la passione e il talento per la street photography, decise di fare la bambinaia. Forse perchè non si creò una sua famiglia, forse perchè questo le permetteva di avere vitto, alloggio e libertà (ovvero la possibilità di fare lunghe passeggiate in giro per Chicago coi bambini che accudiva), forse per amore verso i bambini stessi; sta di fatto che la Maier non pubblicò mai alcuna sua opera, non diventò una fotografa professionista e continuò a fare la tata per tutta la vita.

Perchè? Me lo chiedevo mentre guardavo il documentario e me lo chiedo ancora oggi. Eppure sono certa che fosse consapevole della sua bravura, del suo occhio fotografico, della sua capacità di cogliere l’attimo, di comporre, d’inquadrare, di usare la luce, di raccontare ciò che la circondava. Ed intrattenne anche un costante dialogo non verbale con se stessa, visto che realizzò un gran numero di autoritratti in cui era solita catturare ciò che specchi e vetrine le restituivano, ovvero il suo riflesso, il suo “doppio”.

Scattava solo per una sorta di bulimia fotografica? Non credo. Per accorciare le distanze tra sé e il resto del mondo attraverso l’obiettivo? Può darsi. Per cercare e trovare se stessa attraverso le immagini? Sì, credo sia questa la chiave giusta. E infatti non sentiva tanto la necessità di sviluppare e stampare, quanto quella di scattare. Scattare. Scattare. La fotografia era il suo modo d’interagire con gli altri, di guardarsi dentro e di guardarsi attorno, di prolungare se stessa e di creare le tante tessere del mosaico di cui lei stessa faceva parte.

Che altro sappiamo della misteriosa Vivian Maier? Dal documentario e dalle letture che ho fatto dopo, spinta dalla curiosità di scoprire qualcosa in più su questa tata-fotografa, emergono tratti della sua personalità importanti tanto quanto il suo talento: era estremamente riservata, non aveva né amici né relazioni sentimentali e accumulava buste, scontrini, riviste e quotidiani facendo lunghe pile che partivano dal pavimento ed arrivavano al soffitto.

Il Disturbo da Accumulo oggi trova una sua collocazione ben precisa nel DSM V e lo si definisce come un disturbo caratterizzato dalla difficoltà a buttare determinate cose, indipendentemente dal loro valore, espressione di un intenso bisogno di salvarle e di un forte disagio all’idea di separarsene. Tutto ciò viene vissuto in una dimensione di segretezza: chi ne soffre si vergogna, evita di parlarne, di far entrare in casa persone estranee e spesso si isola socialmente. Ed è proprio quello che faceva la Maier ed è anche ciò che la portò ad affittare quel box in cui stipò tutto ciò che più amava, pur di non gettarlo via.

Un attaccamento affettivo che combacia con l’intento di preservare il tempo: accumulare e scattare fotografie devono aver avuto per lei la funzione di “cristallizzare” il tempo. Preservava il tempo per preservare se stessa. [Cosa che d’altronde fece anche Andy Warhol con le sue “capsule del tempo”. Ma questa è un’altra storia…]

“Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”, dice lei stessa in una sua registrazione. E in un’altra registrazione chiede ad uno dei “suoi” bambini: E ora dimmi, come si fa a vivere per sempre?”

Ecco, secondo me la risposta a questa domanda sta nell’ARTE. E nei suoi scatti ce n’è tanta. Non sappiamo se desiderava che venisse scoperta ed apprezzata, che diventasse ETERNA, ma ora che John Maloof l’ha resa fruibile lo sarà di certo. Lei, anche a causa del suo disturbo, non avrebbe mai buttato via il suo “tesoro” e forse in cuor suo sapeva che prima o poi qualcuno lo avrebbe trovato e avrebbe detto: queste non sono foto qualsiasi, sono opere d’arte!

Ti consiglio vivamente di vedere il film-documentario  (ti lascio qui il link al  trailer: Alla ricerca di Vivian Maier) e i suoi meravigliosi scatti. O meglio i tanti tasselli del suo mosaico. Io me ne sono innamorata!

p.s. Grazie di cuore ai quasi 7500 lettori del mio ultimo articolo. Allora anche per voi è importante stampare le fotografie!

6 pensieri su “Chi era Vivian Maier? La tata fotografa

  1. cesareabbate ha detto:

    Vivian Maier rappresenta quello che dovrebbe essere la fotografia. La totale di libertà di guardarsi intorno senza compromessi, rimanendo se stessi. La sua storia mi ha commosso. Le sue immagini poesie senza tempo.

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  2. marioquaranta ha detto:

    «Le piacevano le facce, i vecchi, la gente che dorme, le donne eleganti, le scale, i bambini, le ombre, i riflessi, le scarpe, le simmetrie, la gente di spalle, la rovina e gli istanti».
    A. Baricco

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